Il gusto è l’attitudine a orientarci nella scelta dei segni che ci rappresentano e nella decodifica di quelli che ci circondano. Teoricamente il buon gusto si verifica quando tale attitudine viene affinata, educata e approfondita attraverso un percorso di studio e l’esercizio quotidiano dell’osservazione critica.
Non c’è gusto senza conoscenza, non c’è buon gusto senza consapevolezza.
Ma davvero funziona così? E fino a che punto è possibile oggi parlare di consapevolezza estetica?
Siamo frastornati da migliaia di immagini e sollecitazioni sensoriali di cui, per la quasi totalità, non riusciamo ad operare alcun tipo, neppure parziale, di decodificazione critica e cosciente: i segni ingombrano i nostri sensi come altro da noi, come plancton subliminale di cui ci nutriamo senza averne bisogno e senza fame reale.
Il proliferare dei segni genera ansia ed insoddisfazione alle quali rispondiamo consumando nevroticamente ciò di cui presumiamo di aver bisogno, senza mai sentirci sazi, perché non è la fame che ci spinge a consumare.
In questo pulviscolo di segni senza significato, di cibo senza fame, cerchiamo di orientarci alla meglio, di rintracciare un percorso, una chiave di lettura: sballottati ed insicuri tentiamo di riconoscere i nostri simili, il nostro gruppo, la nostra identità e la nostra appartenenza. Abbiamo assolutamente bisogno di punti di riferimento, di mappe di senso.
Ci vengono apparentemente in soccorso, aggravando la situazione, motori di ricerca che selezionano per noi, riviste patinate che costruiscono identità artificiali, palinsesti televisivi che offrono modelli in cui la moltitudine di sollecitazioni si ricompone entro un ordine apparente, spot pubblicitari che propongono un catalogo cangiante e sempre variabile di stili di vita a cui aderire, in cui riconoscersi: nuovi segni, nuovi consumi. Dalla famiglia ideale che abita il Mulino Bianco alla Milano da bere, a life is now…sarò la tua birra…
Nello tsunami della contemporaneità il buon gusto alligna come un virus letale, come una droga che ti promette felicità per darti invece dipendenza. Alleato fondamentale del consumo estremo il buon gusto vive oggi separato dalla consapevolezza e dall’educazione e si maschera come un avatar, in sembianze sempre diverse e cangianti.
Ed ecco quindi un primo elenco di reincarnazioni assai infide del buon gusto che ho incontrato nel mio pellegrinaggio estetico.

Il buon gusto è “la via di mezzo”, una selezione che elimina le abbuffate ingorde, le esagerazioni e i grandi digiuni.
Nel caos babelico di lingue che non riusciamo a capire, il buon gusto è una spiaggia riparata, l’approdo per i naufraghi che non sanno nuotare, un salvagente contro la tempesta dei segni.
Il buon gusto tranquillizza, è rassicurante e stabile.
Il buon gusto non esagera mai, evita gli estremi, ricerca la quiete e detesta il rischio .
Il buon gusto adora la parola “classico” senza capirne la matrice rivoluzionaria e fondativa.
Il buon gusto è un distillato del “già visto”.
Il buon gusto è sempre contro l’innovazione e la ricerca.
È contro l’autonomia delle idee, contro la personalità originale e spiccata, contro l’indipendenza di giudizio.
Detesta l’ironia.
Odia la dissacrazione e non conosce il gioco.
Il buon gusto è un palliativo contro la patologia dell’insicurezza, ma non ne risolve la causa.
Il buon gusto è l’assenza di un gusto.

Per ora mi fermo qui. Le definizioni sono ardite e azzardate.
Il buon gusto piace molto, è vincente e assai diffuso: parlarne male è difficile e impopolare, richiede motivazioni forti, prove inconfutabili.
E allora via, è giunto il momento di fare degli esempi.
Se queste sono le premesse, ormai avrete cominciato a capire perché sono allergica al buon gusto.