L’eccesso di gusto può essere, all’opposto, il punto d’arrivo di un percorso di studio molto approfondito, di iperattenzione e iperspecialismo estetico. Non c’è come sapere molto per perdere la passione in qualcosa di concentrato e spalmarla piuttosto su un’ampia rosa di possibilità delle quali, la conoscenza, ci ha portato a scoprire la qualità equivalente. Quando si conoscono a fondo gli stili e i codici diventa difficile disprezzarne uno in favore dell’altro; piuttosto si cerca ogni volta la ragione dei segni e della loro diversità.
Per spiegare questo tipo di atteggiamento cito solo due epigoni accomunati, seppur con esiti diversi, dall’apprezzamento delle testimonianze della storia nella loro totalità.
Il primo è quello della post-modernità intesa come operazione di citazionismo, come sintassi capace di accorpare stilemi e vocaboli eterogenei , fino all’elezione del “kitch” a categoria estetica, in un percorso che pone ironia e cinismo tra i propri criteri fondativi.
Il secondo è quello largamente diffuso nelle politiche di tutela dei beni culturali, di assumere il passato e i segni che esso ha stratificato nelle nostre coscienze e nelle nostre conoscenze, come valori indiscutibili, al di qua di ogni opzione distintiva e di ogni selezione, il passato come unica contemporaneità possibile.
La convinzione che ciò che è antico sia sempre e comunque meglio di ciò che è attuale è generata dalla consapevolezza che il percorso seguito dall’umanità non segue un tracciato rettilineo, lanciato verso il progresso ma, al contrario, è il susseguirsi di cicli casuali dei quali è impossibile pre-vedere i risultati e il punto d’arrivo: la paura del futuro e la sua rimozione portano al culto di ciò che è già noto, in un presente insicuro e dall’immaginario debole e frantumato.