Il centro è sempre sinonimo di buon gusto.
Lo è nei ragionamenti, nei modi di esprimersi, negli obiettivi da conseguire: lo è sempre, totalmente, nelle città e nelle politiche urbanistiche attuate da chi le governa.
Il centro nelle città democratiche è il luogo della rappresentatività secondo i canoni mediati del consenso e quindi, inesorabilmente, secondo i canoni del buon gusto per come tale malattia sta emergendo in queste pagine.
Chi governa la città è spesso portatore di buon gusto direttamente, perché esponente di una cultura dei segni bassa e non evoluta, indirettamente, perché alla ricerca del consenso guidata dall’obiettivo prioritario di non incontrare critiche e opposizioni e quindi, inesorabilmente, incapace di produrre innovazione e nuovi codici: la novità è nemica del buon gusto.
Tra due opzioni è sempre preferibile quella già sperimentata, quella già vista, quella che non rischia .
In un Paese come l’Italia, in questo momento storico, i canoni del buon gusto si possono così riassumere:
– è senz’altro da preferire ciò che non spicca, ciò che si mimetizza;
– è senz’altro da preferire ciò che già esiste e in quanto tale è già consolidato.
La storia e le sue testimonianze ci mettono al sicuro: i segni del passato sono in blocco e senza distinzione, valori indiscutibili, senz’altro migliori e preferibili rispetto ai segni del presente.
Con ciò si ignorano alcune questioni fondamentali, innanzitutto che la Storia può essere narrata come innovazione continua, come rinnovamento e trasformazione incessante di ciò che esiste.
Guardando ciò che l’uomo ha saputo fare nel corso del tempo, mi appassiona fortemente il coraggio di cambiare, l’intelligenza che ciò richiede: ritengo che, paradossalmente, l’amore per il passato che attraversa l’opinione pubblica sia in gran parte da ascriversi non alla sua conoscenza approfondita, ma ad un’ignoranza diffusa della storia dei segni, che è una storia di invenzioni successive.
Alla diffusa sfiducia per la contemporaneità, ha contribuito senza dubbio la bruttezza di gran parte della città moderna, la sua corruzione, la pornografia di molte periferie, frutti deformi della speculazione e del malcostume politico e sociale: non è un caso che il rifiuto del moderno sia diffuso soprattutto nel nostro paese, che stenta a diventare una democrazia normale e un po’ più civile di quanto non sia riuscita a essere fin qui.
Forse una parte della diffidenza italica nei confronti dell’architettura moderna nasce anche dal fatto che essa non è concepita per durare nel tempo, ma offre un’immagine di transitorietà e precarietà notevoli: l’idea del monumento eterno fa parte dei nostri cromosomi, è innata nella nostra cultura, ne siamo letteralmente intrisi.
La pelle trasparente e cangiante degli edifici contemporanei, la loro fragilità, contrasta con la cultura della pietra di un popolo di “proprietari di casa” che affidano alla costruzione delle “quattro mura domestiche” i risparmi di una vita, per lasciarli a chi verrà dopo, figli, nipoti, segno tangibile e imperituro del proprio passaggio su questo pianeta.
L’apprezzamento della solidità e della robustezza, gioca fortemente a sfavore dell’apprezzamento dell’architettura contemporanea, delle sue forme sinuose e instabili, dei suoi materiali soft e deperibili.
Sta di fatto che, laddove i valori della rappresentazione sociale sono alti, nel centro cittadino, la società italiana di questi anni sceglie inesorabilmente la mimesi e la conservazione, espellendo l’innovazione e la sperimentazione, dando altissime dimostrazioni di buon gusto e quindi, dal punto di vista della mia allergia, dando il peggio di sé.