Sdraiata sul divano, quella domenica di febbraio, sentiva salire una crescente inquietudine: dalle pagine del libro che stava leggendo, piano piano, emergeva il racconto di qualcosa che le somigliava sempre di più, una serie di indizi e di frammenti che, l’uno sopra l’altro, prendevano inesorabilmente una forma a lei assai nota: la sua.
La persona descritta nel libro era lei: uguale l’età, coincidente l’aspetto fisico, i tratti caratteriali, i vezzi e le manie.
In un primo tempo provò a ragionare su tali coincidenze per convincersi della loro casualità: in fondo molte persone potrebbero trovar posto nella stessa descrizione, almeno tante quante, ogni giorno, trovano indicazioni utili e autoriferite negli oroscopi.
Eppure non era solo questo: quelle scritte nel libro non erano semplicemente allusioni generiche e capaci per ciò di adattarsi a molte, diverse creature: al contrario, via via, si stringevano sempre più attorno a una forma non sovrapponibile, inconfondibile e unica.
“Eh sì”, pensava per sedare l’ansia crescente. “Di donne quarantenni ce ne sono molte! I caratteri fisici descritti sono peraltro diffusi e rientrano in quella tipica medietà che definisce uno standard comune, non un’eccentricità già di per sé notabile…… Ma non è così per il mestiere: quante sono le donne quarantenni che esercitano la professione del magistrato?…… Poche in Italia: due in questa provincia! E una di certo si esclude da sé perché è diafana e ha gli occhi blu, non grigiastri, color palude di Lerna come la cicciottella protagonista del racconto… Come me!”
Poi per un attimo si tranquillizzò pensando che nulla nella trama potesse comunque far pensare alla sua città, rendendola riconoscibile: la scena era diversa, un luogo non precisato, ma senza dubbio altrove, perché nella sua città non esisteva un tribunale con la facciata cupa e arrogante come quella descritta nelle pagine del libro.
“O forse sì? Che dire dell’ordine gigante di paraste che incorniciano l’ingresso in cima alla scalinata, simmetriche, autoritarie e insopportabilmente virili?”
Lei, nell’esercizio del suo ruolo, giunta alla sommità della scalinata attraversava la soglia tra giusto e ingiusto con l’alterigia di chi esercita il potere del giudizio segnando le vite, i destini, gli equilibri di persone che invece, la stessa soglia l’avevano varcata sentendosi piccole, impotenti, comunque colpevoli: forse sì, forse per loro quella facciata era davvero cupa e arrogante.
Dentro la toga e i rituali del processo, il racconto narrava di una protagonista instabile, umorale e stupidella, incapace di equilibrio, di distacco e pietà, intenta a vivere una vita di apparenze e di agi, golf e griffe alle spalle degli altri: non i contorni neri dei giudici di Daumier, ma i colori pastello del buon gusto di provincia, non i tratti drammatici del nano di Lee Masters, ma un abbonamento nella palestra più costosa per smaltire la cellulite durante gli orari d’ufficio, perché nella città corrotta del racconto, per i magistrati non c’erano regole da rispettare. Nelle parole della narrazione l’ingiustizia non aveva la forza del sopruso violento, ma quella più sottile e umiliante della mediocrità che si traveste da classe dirigente senza meriti e virtù .
“Oh Dio! Questa però non può essere solo una coincidenza!”
Come lei, nell’intreccio del racconto, la giudice quarantenne, cicciottella, con gli occhi grigiastri color palude di Lerna, una mattina si era alzata di pessimo umore, perché il giorno prima il suo diario era stato rubato insieme alla sua auto, da ignoti rappresentanti della parte più disprezzabile del genere umano. Come lei, la protagonista del racconto, con l’animo appesantito da un rancore insopprimibile e da un’angoscia tremenda per il destino dello scritto e delle sue intimità, aveva condannato a due anni di galera il malcapitato ladruncolo reo di un furto di gioielli in un opulento appartamento del centro: per somma sfortuna era capitato sotto le sue grinfie proprio in quel momento, il peggiore che avrebbe potuto immaginare, quello in cui l’irascibile signora, attraverso lui, l’aveva fatta pagare a tutta la categoria dei ladri.
Certo, però, questa non poteva essere soltanto una coincidenza: le pagine del libro narravano, bloccandola per sempre, una parte di Lei sulla quale, fino ad allora, aveva potuto sorvolare svolazzando senza rimorso, ma che dentro la forma della scrittura, assumeva un aspetto sinistro e deplorevole, immodificabile e tremendo.
Cosa avrebbero pensato di lei al golf club dopo aver letto il libro? Quanti sarebbero stati i lettori che, riconoscendola senza dubbio, l’avrebbero guardata con il giusto disprezzo che si meritava? Con quale stato d’animo avrebbe potuto varcare la soglia del tribunale da quel momento in poi?
Per la prima volta si sentì esposta al giudizio degli altri e avvertì la violenza di un’accusa subita senza possibilità di replica. Per la prima volta si vergognò di sé.
Siamo tutti attori e spettatori.
Ci muoviamo nel teatro del mondo affannati nei nostri ruoli, recitando quotidianamente sullo sfondo di una scena che non scegliamo mai e della quale, spesso, non cerchiamo neppure di capire il senso.
Guardiamo le recite degli altri fornendo critiche e interpretazioni svariate che servono soprattutto a giustificare le nostre relatività.
Difficilmente sappiamo essere spettatori di noi stessi: quando ciò succede ci sorprendiamo di fronte allo spettacolo di un io sconosciuto e imperscrutabile, così diverso da ciò che pensavamo di essere e così diverso da ciò che gli altri pensano di noi.