illustrazione © Francesca Perani

Mi soffermo ancora su tali questioni: il buon gusto come ipocrisia esistenziale, come schiuma del non pensiero e del non sentimento, si fa detestare non solo da chi conosce a fondo, ma anche da chi ama e odia davvero e frequenta i sentimenti a tinte forti.
Si può leggere la storia dei segni come storia di “ribellioni” successive che hanno rovesciato i canoni del buon gusto dominante, rinnovando i linguaggi, sovvertendo le regole e diffondendo nuove consapevolezze.
Il buon gusto è il grigio dell’intelletto e della passione, l’opaco dei colori e delle luci, la mediocrità delle opzioni.
Ogni rivoluzione sociale passa anche attraverso una rivoluzione dei segni, delle iconografie dominanti, dei linguaggi.
La storia dell’estetica è la successione di cicli in cui i codici in uso giunti al massimo grado di affermazione e di dominio cominciano a produrre altro da sé, “anticodici”, linguaggi blasfemi che mettono in crisi le regole vigenti, le accademie radicate e si sostituiscono ad esse aprendo nuovi orizzonti espressivi, nuove forme di comunicazione.
C’è qualcosa di titanico nelle rivoluzioni dei segni che vediamo riassunte nei libri di arte: è stupefacente e appassionante confrontare le Madonne del Beato Angelico alle donne di Tiziano, alle mademoiselles di Picasso…
Nei segni c’è la santità, la purezza, la carne, il dolore…
I segni trasportano i significati e le filosofie, le concezioni del mondo, del nostro vivere, del nostro morire.
L’attitudine a significare, a raccontare e manipolare i segni, accompagna l’esistenza dell’homo sapiens e della sua evoluzione, ne è la traccia più impressionante e più commovente.
Come è possibile che esemplari della stessa specie abbiano prodotto gli affreschi del convento di San Marco a Firenze e il salotto country dell’ultimo numero di Casa Amica?