Nessuna esperienza è in grado di sconquassare i nostri pregiudizi in materia di gusto più di un viaggio nella Cina dei nostri giorni.
In Cina producono tutto e tutto è disponibile e in vendita nelle grandi metropoli-mercato.
Non ci sono limiti geografici: in Cina si può comprare il mondo, ri-prodotto in milioni di oggetti e di segni che valicano le frontiere, i marchi, le identità originarie per turbinare ammonticchiati l’uno sopra l’altro e disperdersi poi in un pulviscolo che, dalla Cina, sta coprendo il mondo con un folto strato di cloni.
La Cina è un vulcano che erutta merce in quantità impressionante: come polvere sottilissima la merce cinese si insinua ovunque, travestendosi di volta in volta da prodotto tipico e artigianato tradizionale, da gadget, da oggetto di lusso, da status symbol.
La Cina esporta avatar che assumono le sembianze di tutte le geografie del mondo, unificandone l’anima.
La Cina si reincarna nelle griffe, nei vetri di Murano, nei tessuti di Prato, nelle uova e nei pomodori che compriamo al supermercato, nei cubetti di granito che utilizziamo per le nostre pavimentazioni stradali, nelle medicine e nelle vitamine.
La Cina non sta nella globalizzazione: è la globalizzazione.
In tutto il mondo compriamo Cina, a volte per risparmiare, altre volte perché qualcuno, a nostra insaputa, ci vende falsi spacciati per autenticità.
E in Cina compriamo tutto il mondo, a volte tarocchi buoni, a volte tarocchi pessimi, immersi in un continuo mercanteggio all’interno del quale il prezzo non è dato come corrispettivo certo e dovuto, ma diventa entità astratta, da giocarsi al momento.
A Shanghai puoi comprare un vero Rolex, un finto Rolex bello, un finto Rolex brutto: li trovi vicinissimi l’uno all’altro, a una distanza fisica che spesso è solo quella che c’è tra il fronte e il retro di uno stesso edificio. E quando sei sul retro sai che il tuo tarocco costerà diversamente da quello di chi ti ha preceduto e da quello di chi ti seguirà.
Ma in fondo quando mai nel mondo del consumo estremo il prezzo di un prodotto risponde a logiche comprensibili dalla maggior parte di noi?
E ancora più in fondo, cos’è un falso nel mercato globale delle merci? O meglio, cosa è il vero?
È un problema di apparenza? Oppure di sostanza?
Di entrambe le cose a partire dal fatto che comunque gli oggetti che ci circondano sono per la gran parte privi di un senso chiaro e avulsi dalla dimensione del necessario?
Sepolti da questa valanga di merce replicata, che forma possiamo dare all’idea di sostenibilità dei modelli di sviluppo?
La Cina travolge le categorie estetiche ed etiche del vecchio mondo, accelerando l’urgenza di una riflessione sulle strategie che il pianeta deve ideare per far fronte all’ondata della follia contemporanea.

In borsa ho un portafoglio Louis Vuitton, comprato nella città vecchia di Shanghai dopo un’estenuante trattativa con un ometto raggrinzito, che me lo voleva vendere a tutti i costi: alla fine il prezzo concordato è stato di 70 Yuan, circa 8 Euro, per me poco, per lui non so, ma credo molto se il termine di riferimento è quello dello stipendio mensile medio di Shanghai che, ho letto, è intorno ai 2000 Yuan.
Ovviamente è un tarocco, ma un tarocco buono, cioè di buona qualità, sia per quanto riguarda la forma che per quanto riguarda i materiali con cui è confezionato.
È stata soprattutto una prova di mercanteggio, attività nella quale mi sento totalmente negata, non tanto per incapacità, ma per rifiuto ideologico.
Rispetto all’esosissima richiesta iniziale di 500 Yuan, il buon prezzo spuntato è stato soltanto una vittoria di Pirro: infatti, da assoluta dilettante, ho commesso l’errore di pagare con una banconota da 100 Yuan accettandone un’altra di resto, che poi ho scoperto essere falsa.
La conservo nel falso portafoglio Louis Vuitton: sono i miei souvenir della Cina.

Oltre ai tarocchi, ho riportato dalle metropoli cinesi emozioni febbrili e indimenticabili
Di certo uno degli elementi che più ha colpito la mia sensibilità di “abitante del paesaggio europeo” è stato il contrasto crudo tra la città nuova, vincente, verticale e ricca e la città vecchia, perdente, orizzontale e povera, fatta di hutong e casupole a un solo piano, di vicoli stretti e piccolissimi cortili.
Tali città sono intrecciate, incuneate tra di loro in un’estetica dell’ossimoro che affascina per la sua violenza e la sua transitorietà.
L’avanzata della città “multinazionale” senza storia e memoria, nel suo farsi rapidissimo semina cicatrici lungo tutto lo spazio pubblico, che è travagliato da cantieri in corso, spesso pericoloso e difficilmente percorribile.
Soprattutto a Shanghai le macerie appartengono all’esperienza visiva, uditiva e respiratoria di chi transita per le strade. In questo territorio accidentato e provvisoriamente inagibile i cinesi si muovono con flussi apparentemente strani e di difficile lettura: lo spazio urbano sembra a volte disabitato, a volte abitatissimo e se il suolo respinge per la sua “inospitalità”, il sottosuolo delle nuove linee metropolitane, al contrario rigurgita maree di persone che si spostano tra un punto e l’altro dell’enorme città di venti milioni di abitanti.
City users e city makers sono nelle metropoli cinesi realtà in forte tensione reciproca e anche estetica: la povertà segna i volti e le andature degli anziani che, spesso, teneramente, i più giovani hanno l’abitudine di condurre per mano come si fa con i bambini, barcollanti, incerti sulle gambe provate da distanze difficili.
Dietro l’avanzata dell’economia multinazionale non possiamo fare a meno di immaginare le fatiche e le povertà di milioni di abitanti che si muovono disorientati dalla piena della trasformazione che travolge abitudini, luoghi e relazioni consolidate, trapiantati come sacchi dai cortiletti polverosi delle loro casupole spazzate via dalle ruspe, al ventesimo piano di un edificio prefabbricato, distante decine di chilometri.
È forse proprio per patinare tali travagli che la narrazione magica della supremazia cinese presente in tutti gli aspetti della comunicazione ufficiale, assume i caratteri della “propaganda necessaria”.
Paradossalmente lo slancio verso l’infinito dei nuovi grattacieli spesso deve fare i conti con una cappa di smog che accorcia gli orizzonti e li avvicina, rendendo invisibili i coronamenti degli edifici più alti e riducendo drasticamente le prospettive: la Cina fotografata spesso non ha lontananze e i primi piani sembrano uscire da una nuvola di fumo grigio che avvolge tutto.
Noi italiani rimaniamo colpiti: pure se abitanti del nord industriale portiamo con noi l’idea del cielo azzurro e trasparente, dei panorami lunghi, degli orizzonti profondi. Lo smog ci fa tossire e il fatto che dai rubinetti dei grattacieli scenda acqua non potabile ci inquieta: la cultura della sostenibilità ambientale fa ormai parte del nostro bagaglio culturale, mentre qui sembra ancora qualcosa di al di là da venire.
Certo che nel cielo senza compartimenti del pianeta l’inquinamento prodotto dal gigante cinese può vanificare in breve i lunghi sforzi fatti altrove per migliorare la qualità dell’aria.
Per molti versi la retorica urbana della nuova Cina sembra ripercorrere quella che ha accompagnato l’avvento del grattacielo negli Stati Uniti fino alla crisi del ‘29 e al conseguente drastico ridimensionamento dell’entusiasmo propagandistico: simile è la competizione “muscolare” tra edifici e la ricerca di record, simile la spregiudicatezza nell’uso del linguaggio architettonico e la ricerca di spettacolarità delle soluzioni. Sicuramente più bassa la qualità architettonica, la raffinatezza del disegno, il progetto dello spazio pubblico che nella realtà americana ha saputo dar vita a città verticali di straordinaria bellezza come New York e Chicago.
In Cina si respira aria di omologazione linguistica, di prevalenza del modello della multinazionale globalizzata che attraversa tutto il mondo con un linguaggio kitsch indifferente ai luoghi, ai paesaggi e alle culture specifiche. E se per i grattacieli di New York si può parlare di “cities within the city” per quelli di Shanghai, in molti casi, è più facile parlare di “cities against the city”.

In alcune visioni patinate dallo smog sembra di rivedere l’atmosfera inquietante di alcuni disegni della metropoli del futuro di Hugh Ferriss. In particolare ciò avviene di fronte allo spettacolo dell’edificio della CCTV, luogo deputato alla comunicazione televisiva della nuova Cina, a fianco del quale si staglia la sagoma annerita e maleodorante dell’edificio della TVCC, anch’esso progettato da OMA, bruciato nel gennaio di quest’anno da un incendio causato dai fuochi d’artificio esplosi per celebrare una delle grandi feste popolari della tradizione cinese: la sfida delle nuove geometrie stagliate contro il cielo grigio pare concretizzare la metafora di un enorme punto di domanda sul senso della metropoli e sul suo destino.

illustrazione © Francesca Perani