Mi sono sempre chiesta quale sia la condizione migliore del riposo a partire dal fatto che la stanchezza fa ormai parte integrante della mia vita, della mia quotidianità, a volte come sensazione diffusa dell’impossibilità di continuare, più spesso in forma di dolore fisico acuto e martellante, segnale d’allarme di una soglia superata.
Il riposo è uno stop, un’interruzione, un cambiamento di stato.
Non solo dal movimento alla quiete, anche al contrario, dallo sforzo del pensiero al dinamismo del corpo che si agita e sfoga, distruggendo tensioni, polverizzando lo stress.
Il mondo dei segni è una fatica alla quale è difficile sfuggire: i nostri sensi sono continuamente sollecitati da immagini e icone, suoni e rumori, miasmi e profumi a cui non possiamo sottrarci, senza tregua, incessantemente.
La stanchezza può essere di natura diversa. Per esempio può essere generata dalla ripetizione monotona e prevedibile dei segni che quindi percepiamo come banali, senza sogno, senza innovazione e curiosità.
Il riposo in tal caso è la ricerca di sensazioni “forti”, di nuovi significati, di avanguardie che frantumano i canoni standardizzati, che alimentano la nostra curiosità, la nostra voglia di apprendere ed essere stimolati.
All’opposto la stanchezza può anche derivare da un’ipersollecitazione sensoriale che genera frenesia, ipercinetismo, incapacità a sedimentare e a significare, cioè ad attribuire valore a ciò che ci circonda, che diventa per questo oggetto di consumo in un clima di individualismo esasperato.
In queste condizioni il riposo che sogniamo è fatto di silenzio, di monocromatismi e minimalismi, di rarefazione dei segni, di condivisione sociale e tradizione.
Il buon gusto è una situazione di torpore sensoriale, di inattività che si autosoddisfa e che si autogratifica.
Il buon gusto non dà mai segni di stanchezza e per questo non cerca mai il riposo.
In compenso il buon gusto arreca grande stanchezza a chi non lo possiede, desiderio di cambiamento e di trasformazione: è la miccia che fa esplodere le avanguardie, è la folla che fa fuggire i mistici alla ricerca del silenzio e di dio, è il grigiore che partorisce i colori di Pollock, è il disordine che genera il quadrato blu sul fondo blu di Klein, è il perbenismo che fa elevare l’urlo di Munch e gli sberleffi di Ensor.
Il buon gusto è tutto ciò che non piace a chi sogna un mondo diverso.

A Firenze, l’altro ieri, sono tornata a visitare il Convento di San Marco.
Lo desideravo molto.
In realtà non ne potevo più: Firenze ti succhia l’anima, ti assorbe tuo malgrado.
È un corso intensivo, una maratona senza allenamento. Ovunque nel tuo camminare, parlare, ascoltare emerge Firenze, si prende il centro dell’attenzione, ti sollecita pensieri, sguardi, riflessioni.
Firenze è un “troppo”, un eccesso continuo: di bellezza, di importanza, di qualità delle testimonianze. Ma anche del loro opposto: folle, casino, iperconsumo sciatto.
Firenze non tollera stupidità e mediocrità: più che altrove, stagliate contro il suo sfondo superbo, diventano insopportabili, umilianti.
Le celle del convento di San Marco sono davvero un luogo di rarefazione, di profondità interiore. Sono un “interno” per fermarsi a capire dopo tanto “esterno”che ti stordisce con i suoi infiniti messaggi incrociati.
Nell’orgia di segni fiorentina, San Marco è un vuoto luminoso, è il sacro, è la profondità, davvero beata e davvero angelica.