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C’E’ CASA E CASA 15

Riflessioni al tempo del coronavirus

 

Abitare il proprio corpo

Il post con l’opera di Donald Rodney “in the house of my father” pubblicato in Facebook da Giovanna Brambilla
, mi commuove profondamente.
Come a volte capita gli artisti riescono a condensare in un gesto sintetico e poetico un oceano di ragionamenti che, descritti con linguaggi diversi, rischiano di perdere la forza del tuono.
La casetta “realizzata con minuscoli frammenti di pelle dell’artista , asportati durante gli interventi chirurgici” (cit.) accolta nel palmo della mano di Rodney allettato è per me una bomba emotiva.
Il richiamo al padre contenuto nel titolo, all’origine e all’identità indelebile e unica che ogni corpo racchiude, mi smuove infiniti richiami.
E viene a galla Seneca e la Consolazione a Elvia, l’esilio che , in fondo, non è così insopportabile quando, insieme al tuo corpo, riesci a portare con te, anche nel luogo più inospitale, le tue virtù.
E viene a galla Everyman di Philip Roth, il racconto senza fiato del percorso di un corpo che si trasforma con la malattia e con la vecchiaia, che diventa il percorso per mettere a fuoco il senso più profondo della vita.
E mi vengono in mente le mani intelligenti del Sebastiano Algor nella Caverna di Saramago, il corpo del maestro vasaio che modella i suoi lavori, portatore di esperienza, di capacità, veicolo inscindibile dell’anima , fuori da ogni dualismo mistificante.
E pure il racconto di Maurizio Maggiani questa mattina alla Fiera dei Librai, quando non sapeva dove mettere le mani dentro la scena virtuale in cui mancavano i corpi, la loro interazione, i loro scambi emotivi senza cui anche le parole si scaricano di senso vitale.
Abbiamo rimosso i corpi e con loro abbiamo rimosso una forma primaria di conoscenza della vita.
In questo momento storico di idolatria consumistica delle apparenze, di palestre e di cosmesi, la nostra conoscenza del corpo è più che mai rimandata.
Li tipizziamo i corpi, forzandoli entro riferimenti stereometrici, misurabili: e guai a chi non riesce ad avere le misure ideali.
Li cataloghiamo entro categorie anagrafiche: i giovani, i vecchi, i bambini...
Li raggruppiamo in tipologie funzionali: i lavoratori, i poveri, i diversi, i malati, gli emarginati...
Li separiamo tra di loro, li separiamo dall’anima: a loro affidiamo il compito di essere i nostri Avatar nel teatro della commedia umana.
La casetta di pelle accolta nel palmo della mano di Donald Rodney ha un peso specifico enorme: ci chiede con forza di imparare ad abitare il nostro corpo nelle diverse fasi della vita.