Non dimenticherò mai quella sera della scorsa estate quando fui spettatrice del concerto di Youssou N’Dour, ospitato nella suggestiva struttura del Lazzaretto, sorto all’esterno della città tardocinquecentesca per accogliere i malati di peste: un grande prato circondato da un quadrilatero porticato, uno spazio contenuto e protetto, separato dall’esterno, che un tempo era il vuoto dell’aperta campagna e ora è il pieno della città e dei suoi rumori.
Il grande prato ospita spesso spettacoli e manifestazioni pubbliche per le quali dimostra di essere un luogo perfetto: ciò dipende dalla cornice del portico che, circondandolo con le sue esili ed eleganti colonne, conferisce al contenuto di ciò che avviene il valore prezioso di un quadro, di una scena selezionata.
Quella sera nel prato era stato allestito un palco per l’esibizione di Youssou il senegalese. Lo conoscevo come straordinaria voce di colore lanciata sulla ribalta internazionale da Peter Gabriel, arguto scopritore di musicalità etniche spendibili nel mercato globalizzato della musica.
Non avevo mai pensato a lui come a un simbolo di un’identità, cuore di un popolo.
Quella sera il prato era nero non solo per il buio della notte, ma perché l’occasione del concerto aveva fatto lì convenire frotte di africani immigrati nelle città vicine del ricco nord Italia: per loro era più di un concerto, era un richiamo fortissimo, un’emozione collettiva, un’impronta genetica indelebile.
Nel chiostro cinquecentesco c’era un pezzo d’Africa vestito a festa, non come ci vestiamo a festa noi – bianco, grigio, blu – a festa davvero, colori sgargianti, accesi, primari, tuniche morbide, drappeggi, treccine, collane, bracciali, uomini, donne, bambini.
Avevano preso posto nel prato a gruppi di chiacchiere, ma quando dal palco si alzò la prima nota mbalax si composero in un’unica grande onda e cominciarono a ballare, come soltanto l’Africa sa ballare, braccia, gambe, ventri, drappi, collane, treccine attraversati dal ritmo del tama, scossi da un movimento che è insieme corpo, anima, identità, rito e gioia, sacralità e bestia.
Tra loro c’eravamo anche noi, alcuni sparuti esseri di razza bianca, divisi tra diversi e radical chic alla ricerca di etno-ebbrezza.
Non potei fare a meno di notare con un violento razzismo all’incontrario la bruttezza di alcuni alternativi coi loro foruncoli/spinelli/straccetti malportati, fisici macilenti, schiene storte di scogliosi, pancette e flaccidezze, movimenti rigidi, balletti sclerotizzati.
Non potei fare a meno di notare il contrasto tra la vitalità dell’onda nera e la consunzione smorta della presenza bianca.
Anche gli alternativi sono malati di buon gusto: lo sono quando indossano divise senza anima, quando scimmiottano atteggiamenti di cui non conoscono la provenienza e di cui non riescono a dimostrare il senso, lo sono quando non fanno nulla che riesca a travolgere con la forza dell’emozione, con l’impeto del necessario… Insomma quando non sono affatto un’alternativa…
Quella sera nella cornice del chiostro cinquecentesco c’era un pezzo di civiltà lontana, forte, emozionante, necessaria e bella.
Questa fu la vera rappresentazione.
Il giorno seguente i parcheggiatori abusivi brulicanti alla ricerca di spiccioli quotidiani vicino all’ospedale – moderna versione del lazzaretto antico -, mi apparvero in una luce completamente diversa, re decaduti, guerrieri africani fieri e sconfitti da una civiltà dominante consumata dalla presunzione al punto da essere inconsapevole dell’avvicinarsi della propria autodistruzione.