Nella chiesa del quartiere di periferia avevano organizzato uno spettacolo di teatro, secondo il progetto hanamichi che nella tradizione Kabuki unisce con la metafora di un sentiero fiorito la platea al palcoscenico, il centro della città ai suoi margini, gli attori ai comuni cittadini.
I ragazzi della scuola, insieme a diversi gruppi di teatro riuniti per l’occasione, erano seduti in ordine sparso sulle panche allineate della navata, mischiati tra il pubblico di spettatori e a turno intervenivano nel racconto, mettendo in gioco le loro voci cantanti e recitanti, insieme, per costruire una trama comune.
Unico segno di riconoscimento una coroncina di paglia intrecciata appoggiata sui capelli come un’umile aureola di semplicità sopra gli angeli del quotidiano.
Timbri diversi, bianchi, stentorei, femminei, dolci e aspri: lingue plurime, di molti popoli, suoni che si rincorrevano e riverberavano sulle pareti della grande aula.
Non c’erano istrioni, grandi protagonisti, vertici eccelsi, ma non se ne sentiva la mancanza: la chiesa era piena di una intensa e commovente coralità.
All’esterno figure alte sui trampoli ballavano un valzer, facendo ruotare i drappeggi colorati dei loro vestiti: slanciati e immaterici, staccati dalla terra e dalla sua volgarità, davano corpo a una visione di suggestivo lirismo.