Secondo Rudolf Arnheim ci sarebbero alcune forze capaci di condizionare la nostra percezione del mondo: all’interno della composizione in uno spazio, agirebbero campi magnetici capaci di attirare verso di sé in modo più o meno accentuato le forme e la loro disposizione, generando di volta in volta squilibrio e dinamismo oppure quiete ed equilibrio.
In questo gioco di attrazione e respingimento si muoverebbe la gamma delle infinite sfumature dell’espressione: dal classico, risolto e compiuto, sereno e immodificabile, raziocinante e pacato, al romantico, incompiuto e aperto, agitato e instabile, emotivo e inquieto.
Il centro secondo la teoria arnheimiana assumerebbe un ruolo fondamentale, di grande potere, in grado di influenzare la qualità della nostra percezione di un’opera, in positivo o in negativo, come assenza o come presenza.
Tutto ciò appare in qualche modo rassicurante: in fondo le forze che regolano la percezione al di là della nostra volontà, agendo come minimo comune denominatore più forte dell’individualità, dovrebbero porsi come garanzia di un sentire comune e condiviso.
È così?
Possiamo rintracciare qualcosa che a priori, indipendentemente dalle differenze sociali, educative, di esperienza e contesto, ci accomuni nella nostra percezione del mondo, costituendo una base per un gusto comune?
La domanda è aperta, l’argomento di grande interesse.
Nella quotidianità ho purtroppo molto più spesso la sensazione che il peso maggiore lo assumano le differenze percettive e che esse giochino un ruolo di gran lunga più determinante nei rapporti interpersonali rispetto a quello delle presunte affinità e similitudini.

Ci sono situazioni che rendono le differenze percettive particolarmente evidenti e nefaste nelle loro conseguenze.
Sto pensando a un’assemblea di condominio alla quale ho partecipato ieri in quanto proprietaria di un appartamento in un residence del lago di Garda.
I condomìni sono esempi di comunità forzate, in cui le persone convivono all’interno di spazi limitati senza essersi scelte, senza avere un linguaggio comune.
I sistemi di regole che tengono insieme queste comunità forzate sono ormai ampiamente codificati all’interno di giurisprudenze e codici, ma, nonostante questo, dalle statistiche recentemente pubblicate emerge che il tasso di litigiosità e contenziosi ascrivibile alla dimensione del vivere condominiale è veramente elevatissimo e in continua crescita.
A volte l’avversione reciproca e l’incompatibilità tra abitanti arrivano così in là da sfociare in casi allucinanti di cui i media parlano nella cronaca: ma anche senza arrivare a punte di crisi e follia come quelle della strage di Erba, gli abitanti dei condomìni litigano, lo fanno continuamente, per periodi lunghi, per questioni spesso futili.
Torno alla mia assemblea del residence al lago .
L’edificio è un’architettura di una certa qualità realizzata negli anni Sessanta, carica di tutta l’ideologia che vibrava nel progetto urbano di quel periodo: settanta appartamenti duplex e bifacciali disposti in una pianta curvilinea prospettano da una parte verso la strada di quartiere, dall’altra verso il giardino interno, luogo della socializzazione e della comunità, del gioco dei bambini e dello svago degli adulti, incentrato sulla piscina e sul campo da tennis.
In quegli anni gli architetti pensavano che la forma degli edifici, spesso di grandi dimensioni, avrebbe favorito l’incontro, la condivisione, la nascita di un sistema di relazioni positivo tra gli abitanti. Gli esempi citati fino alla nausea nei programmi educativi delle facoltà d’architettura erano le hof della Vienna rossa, le siedlungen della Berlino di May e Taut, le unitè d’abitation di Le Corbusier, il Gallaratese di Aymonino e Rossi, via via – pare attualmente impossibile da credere – lo Zen di Palermo, il Corviale di Roma…
È noto il raccapriccio che alcuni di questi nomi suscitano al giorno d’oggi , così come nota è la fine drammatica che certi quartieri degli anni Sessanta hanno fatto, abbandonati da Dio e dagli Amministratori, privi di manutenzione e infrastrutture, abitati dal sottoproletariato e dalla delinquenza.
Sta di fatto che anche i più ortodossi tra gli addetti ai lavori, gli architetti fedeli alla linea delle grandi stecche, oggi mettono in dubbio l’efficacia di modelli abitativi che addensano una grande quantità di persone in un rapporto di prossimità e di coabitazione, mentre è sempre più chiaro che al di là dell’architettura e delle sue presunzioni, gli abitanti del mitico Karl Marx Hof con la sua facciata lunga un chilometro, avevano tra di loro un legame intenso e prioritario che era la coscienza di classe, l’individuazione di nemici comuni, di valori sociali condivisi nella lotta per la sopravvivenza e la conquista dei diritti civili.
Non è l’edificio che crea la comunità, ma è la comunità che sa dare un senso, un sistema di regole, uno sfondo comune all’azione complessa dell’abitare i luoghi.
Torno di nuovo alla mia assemblea del residence al lago.
La comunità forzata che abita questa struttura non ha niente in comune con quella che abitava il Karl Marx Hof: è infatti questo un luogo di vacanza, una seconda/terza casa per persone piuttosto benestanti che normalmente abitano in città diverse e vengono qui a trascorrere brevi periodi di ferie e riposo.
Teoricamente le condizioni potrebbero dar vita al contesto ideale per dare ciascuno il meglio di sé in un clima di tranquillità, di serena convivialità e di ozio creativo.
Non è così. L’inattività favorisce il ristagno dei problemi, l’ottundimento dei cervelli che, non impegnati in altro, si soffermano sulle inezie più incredibili.
Nel prato della socializzazione, intorno alla piscina e a fianco del tennis, sdraiati mollemente sui propri lettini prendisole, gli abitanti della comunità forzata si attorcigliano in una rete fittissima di sguardi, pettegolezzi, critiche, giudizi e pre-giudizi, piccoli e grandi soprusi, piccole e grandi scortesie reciproche, volontarie e involontarie, piccoli e grandi scazzi, avversioni e afflati personali.
Tutto ciò esplode in occasione dell’assemblea che, una volta all’anno, viene convocata per l’approvazione del bilancio di gestione di questa macchina, per abitare la quale nessuno ha mai conseguito la patente.
La gestione delle assemblee è affidata a Amministratori che si avvicendano con una certa frequenza per soddisfare la brama dei condòmini amministrati, ma che, nelle differenze reciproche, presentano la caratteristica comune di sciorinare una casistica variegata di patologie psichiche (e d’altra parte come reggere un mestiere come quello dell’amministratore di condominio in situazioni di normale salute mentale?).
Qualsiasi argomento diventa pretesto per risse e baruffe, sempre al di là e a priori rispetto alla natura dei problemi, sempre basate sullo strato spesso e inestricabile dei rapporti interpersonali e degli scazzi accumulati durante le ore di ozio.
Il nuovo amministratore avrebbe con discreti risultati potuto affrontare una carriera da guitto: con modalità decisamente gay recitava la sua parte dietro la scrivania/palco con grande teatralità riuscendo a trasformare in pièce anche l’argomento meno sentimentale al mondo, un bilancio condominiale. In particolare aveva una grande passione per sparate moralistiche in cui tirava in ballo l’Italia e i suoi vizi storici, il malcostume di noi tutti, quello del ministro del tesoro che aveva di recente aggravato gli adempimenti burocratici per la sua categoria…… Insomma se è vero, come io fermamente credo, che anche la retorica abbia il suo specifico repertorio di buon gusto, fatto di banalità e di lacune gigantesche, lui ne era un interprete eccelso. Dietro questa spessa patina di cazzate si nascondeva un’incompetenza pressoché totale, una cronica mancanza di dati, di spiegazioni razionali, insomma di tutto quello che avrebbe consentito di liquidare i punti all’ordine del giorno in 5 minuti e tornare a sdraiarsi mollemente sui lettini in fronte alla piscina.
In nome del buon senso e di alcune nozioni neppure troppo sofisticate di diritto tentai di arginare lo sproloquio, certa peraltro di poter godere dell’eterna gratitudine dei presenti, per averli salvati da spese inutili, bacchettate gratuite, sermoni demenziali.
Con mia grande sorpresa notai al contrario crescere via via un sentimento opposto, fatto dapprima di una certa ammirazione per la precisione del mio linguaggio secco e privo di svolazzi, in un secondo tempo trasformatosi in stizza soprattutto da parte di alcune signore con ventaglio che, abituate a parlare di ricette e pedicure, mi guardavano come un marziano venuto da un altro mondo, quello del diritto e della consapevolezza che, ho notato in più occasioni, per coloro che non li frequentano quotidianamente, finiscono col diventare acerrimi nemici.
A loro piaceva così: erano contente di farsi maltrattare da un cialtrone frustrato e incompetente, dalle sue battutine orribili, dalla sua mancanza totale di dialettica.
Per alcuni momenti infierii con una cattiveria acuta e sprezzante che andò di certo a fondo perduto essendo io la sola a dimostrare il bisogno di altri modi di porsi: poi cominciai a pensare che fosse tempo perso e via via mi ritirai lasciando il campo di battaglia totalmente nelle mani dei nemici che se ne riappropriarono rapidamente e senza batter ciglio, spazzando via ogni residuo di diritto e dialettica e facendovi di nuovo dilagare stupidità e buon gusto.
Non provai neppure ad affrontare il tema che mi stava più a cuore di tutti e cioè la richiesta di porre fine allo scempio del giardino condominiale da parte del portinaio a cui la stessa assemblea, due anni prima, aveva deciso di affidare la cura del verde, senza porsi il problema che quello del giardiniere è un mestiere delicato e difficile, che richiede pensiero ed esperienza, cultura specifica e amore consapevole per il luogo.
Con grande buona volontà il portinaio aveva improvvisato il nuovo amore della sua esistenza, quello per il giardinaggio e aveva dato il via ad un piano inarrestabile di distruzione programmata, fatto di aiuolette agghindate, collarini di fiori stile madonnina di Lourdes, potature artistiche, nuovi impianti creativi……
L’aspetto un po’ blasé del giardino insieme al fascino particolare che la natura ha solo quando non è oggetto di interesse eccessivo e ossessivo da parte della nostra specie, erano scomparsi nel giro di due anni, travolti da un’onda di volgarità disneyana .
Ebbene dall’assemblea uscirono solo elogi senza fine rivolti al portinaio e alla sua dedizione: quel giardino da paperino piaceva a tutti , incontrava i gusti dei cittadini benestanti che, provenendo da varie città, abitavano questo luogo nelle loro vacanze oziose.
Rimasi zitta e umiliata: mi sentii sola e incapace di comunicare, capii di aver sbagliato completamente le modalità di accesso.
Capii che nessun contenuto passa se non lo porgi nel modo giusto e che la ricerca di questo modo è in realtà il primo dei contenuti se vuoi comunicare qualcosa a qualcuno .
Il portinaio l’aveva capito molto meglio di me: ricco di inchini e salamelecchi faceva sentire gli sfaccendati abitanti del condominio importanti e superiori e ciò probabilmente bastava per rendere belle le orribili aiuole di cui aveva riempito, con umiltà e reverenza, il giardino.
Il potere del centro aveva lasciato il posto a uno sconsolante potere dell’ignoranza e del buon gusto.
Au rebour, au rebour!
Sentii che dopo tale sconfitta il mio destino sarebbe stato quello dell’eremitaggio, della casa-fortezza, del castello isolato.
Maledetti gli anni Sessanta e le comunità forzate! Maledetti i condomìni!
Forse il co-housing… Forse la comunità di persone scelte tra coloro che individui come tuoi simili, con affinità elettive che si fondano su un linguaggio comune e condiviso al punto da rendere le parole il più delle volte inutili.
Forse andrò a passare la vecchiaia al Beginhof di Amsterdam, insieme alla mia migliore amica e insieme alle anime delle donne sole che, dopo vite di umiltà o di malaffare, hanno abitato nei secoli questo luogo nel centro di Amsterdam, bianco di pace e di silenzio, dedicandomi ai merletti e alle preghiere, non lontano dai cannoni, dalla sfrontatezza e dai murales del Paradiso, abitato invece dagli alternativi e dai tossici di mezza Europa.
In fondo non sono poi così diversi: beghine e tossici hanno scelto i propri vicini di casa e il sistema di valori del quale circondarsi per ridurre al minimo il grado di conflitto che genera il vivere in un luogo insieme agli altri, che non ti assomigliano.
Intossicati dal mondo prima ancora che dall’LSD hanno tracciato un confine, hanno selezionato un linguaggio e un gusto.
Ho molto da pensare. Scrivere mi aiuta.

illustrazione © Francesca Perani