C’è una caratteristica che attraversa tutte le manifestazioni del buon gusto diventandone così un tratto peculiare: è la mediocrità, intesa non come ricerca sapiente e paziente della condizione media, equidistanza equilibrata dagli estremi, bensì come stolto e presuntuoso appagamento del dato di fatto, senza impegno e senso critico, senza capacità progettuale e trasformativa: mediocrità non associata quindi alla saggezza e all’approfondimento oraziano, bensì sinonimo di non scelta, di meschinità e passività, di assenza di sogno, di idee e risultati notevoli.
Mai questa caratteristica mi è apparsa tanto nitidamente quanto dopo la settimana che ho trascorso di recente in Egitto, ospite di un villaggio vacanza sulla riva del Mar Rosso.
I villaggi vacanza sono luoghi speciali, cattedrali al consumo e al tempo libero, cittadelle compiute che riproducono modelli urbani senza la stratificazione della storia e senza la complessità che agisce come elemento forte e imprevedibile nella costruzione delle città reali, dove gli abitanti sono presenze attive dotate di ampi gradi di autonomia e di opzioni di scelta, attori di conflitti e contraddizioni, che generano crisi ma anche ricchezza e biodiversità.
All’interno dei villaggi regna un sistema organizzativo rigoroso ed efficientissimo, finalizzato alla produzione del divertimento secondo target umani individuati con accurate campagne di indagine e ricerca: la giornata del tempo libero viene organizzata con meticolosità, è ritmica, non ha vuoti, non ha opzioni impreviste.
La scelta è ampia, si può fare molto: sport, ballo, musica, cibo, gite, feste. Si può anche non partecipare, estraniarsi e rimanere fuori, leggere un libro e dormire. La condizione della vacanza, cioè del non impegno lavorativo e del riposo tende a eliminare la nozione del tempo, del rapporto obbligato. Per contro però l’organizzazione efficiente del villaggio ripropone con inesorabile puntualità riti e cadenze quotidiane, l’ora del ballo, dell’ acquagym, del pranzo, dell’aperitivo, dello spettacolo.
I villaggi del Mar Rosso rendono visibile in modo netto la propria natura di microcosmi autosufficienti e compiuti: in un paesaggio orizzontale e instabile caratterizzato dalla contrapposizione tra l’acqua del mare che ondeggia e la sabbia del deserto che migra, le cittadelle del turismo sono punti fermi, enclavi cintate, presenze luminose nella notte davvero buia di un territorio disabitato. La luce notturna delle cittadelle assume l’aspetto onirico e surreale dei lunapark, una sequenza di lunapark che per centinaia di chilometri, segna all’infinito la strada che costeggia il mare, sotto la volta celeste del deserto.
Nel mio villaggio, per consentire agli ospiti il godimento di un’ora in più di sole, hanno adottato un orario diverso da quello del resto d’Egitto: per i turisti dentro la cinta il sole tramonta alle 18.00 del pomeriggio mentre per i beduini che abitano il deserto di fuori l’orario è alle 17.00: non ci sono problemi comunque, perché non ci sono rapporti tra il dentro e il fuori.
Anche le gite che partono dal villaggio e affrontano l’Egitto si svolgono secondo rituali organizzati rigorosamente, mantenendo una radicale estraneità ai ritmi del territorio circostante.
Per motivi di sicurezza i turisti si muovono in carovane composte da decine di corriere che viaggiano scortate dai militari, lungo strade ritmate da posti di blocco molto fitti: il turismo porta soldi e per questo va protetto e garantito dalle aggressioni di chi non lo ama e lo vive come simbolo di una cultura degenere e usurpatrice.
La carovana attraversa i paesaggi egiziani che sono paesaggi netti, integri, facili da capire perché estremi e senza sfumature: prima la lunga strada dritta da sud a nord parallela al Mar Rosso nel deserto ghiaioso dei villaggi turistici, poi la strada ondulata da est a ovest nel deserto disabitato delle rocce, poi il Nilo, un’esplosione di verde, agricoltura, colori, frutti, fiori, acqua, uccelli, uomini, villaggi e città.
Il grande fiume è davvero sacro e non stupisce vederlo raffigurato nelle tombe dei faraoni: l’acqua è vita, è civiltà, è cultura e scrittura, è storia. Una via d’acqua che attraversa dritta tutto l’Egitto, cuore di una valle stretta e popolosa, carica di segni straordinari qui depositati dalla civiltà degli antichi egizi.
È la grandezza ciò che colpisce maggiormente quando si visitano i monumenti faraonici: una scala assoluta, estrema , senza mediocrità. Per quanto certe opere appartengano al nostro sapere già dall’infanzia è davvero difficile riuscire ad averne un’idea reale prima di esserci dentro, perché è solo col corpo e con i suoi limiti che riusciamo davvero a misurare il mondo e la sua grandezza.
Luxor e Carnak fanno impallidire la nostra mediocrità, la valle dei re è uno schiaffo potente sulla faccia dei nostri concetti di utilitarismo e di real politik.
Nel regno del simbolico che precede la ragionevolezza platonica si toccano vertici insuperabili di grandezza espressiva e di abilità costruttiva.
La potenza dei segni egizi sopravvive all’attuale fase di mediocrità omologante, privata del pensiero della morte e, di conseguenza, del senso della vita:le colonne di Luxor e Carnak gettano un’ombra di riflessione sulla spensieratezza contemporanea.